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Il passato mi perseguita, il futuro mi reclama …

 Marco Meneguzzo 

Dialogo con Alfonso Leto

 

Alfonso Leto: …. Ecco (mostrando un lavoro della fine degli anni Settanta) questa è un’opera di arte fantastica, come si poteva fare a Palermo, surrealista, psichedelica …

Marco Meneguzzo: ho notato che usi spesso il termine “psichedelico”, che rimanda agli anni Settanta e anche prima, ai Sessanta, ma se si parla di Surrealismo forse si va un po’ troppo indietro, a una stagione davvero ormai storicizzata, nel momento in cui tu dipingevi in questo modo

AL: Tuttavia, per molti di noi questa pittura fantastica era l’unica via d’uscita dalla “vulgata” guttusiana, dalla Guttuso-connection che aveva occupato la sensibilità siciliana, e con essa le gallerie e il mercato. Accanto a questo, come punto di riferimento c’era  molta vicinanza con una figura storica del Gruppo 63, Gaetano Testa, che è stato per me un maestro. Grazie a lui ho compreso che il “centro” è dove noi siamo, e da lì dobbiamo agire, stabilendo un sistema di comunicazione col luogo e dal luogo in cui vivi e da cui teorizzi il tuo linguaggio e in cui agisci le tue relazioni umane.

MM: Questo è il frutto di un incontro felice, …ma come ci si incontrava a Palermo?

AL: Ci si incontrava in alcune gallerie, come Il Condor, o I Quattro Venti, o al bar della Cuba a villa Sperlinga, dove si tenevano libere discussioni. Sempre Gaetano Testa curava per l’editore Flaccovio una rivista - “Per approssimazione” – di cui feci marginalmente parte con qualche illustrazione e piccole presenze, e che era la continuazione della più storica rivista “Fasis”. La nostra generazione di giovani - ci sono 20 anni differenza d’età tra me e Testa… - frequentava anche una generazione intermedia di artisti, come Toti Garraffa, Enzo Patti, Mario Vitale, Nicolò D’Alessandro che dialogavano con noi più giovani, Giovannino Valenza, Nino Quartana, Enzo Onorante…, e alcuni di loro sono stati anche dei maestri nel senso più spontaneo e generoso del termine, perché attraverso la loro unicità suggerivano modalità, direzioni … è da qui che nasce la dimensione del fantastico a Palermo.

MM: Lo definiresti un movimento?

AL: Forse un movimento di affetti e di sensibilità. Un movimento in senso “umano”.

MM: Quindi, mi stai dicendo, o il Realismo di stampo sociale o voi: non c’erano altre possibilità?

AL: Non tante. C’era la posizione, per certi versi affine, di Francesco Carbone e delle sue azioni a Godrano: era un personaggio straordinario che si interessò al mio lavoro già nel 1981, e da allora fu un’amicizia continua. Rispondere alle sue continue richieste di partecipazione e di lavori basati sul rapporto coi luoghi contribuì al mio legame antropologico col territorio, a trovare la chiave per viverci e non andarmene, oltre ogni ragionevole dubbio.

MM: Carbone però, da intellettuale poliedrico qual era, aveva fatto anche opere che erano molto lontane dalla pittura e si interessava di tutte le manifestazioni artistiche. Tu invece sembri molto concentrato sulla pittura.

AL: La mia è una generazione diversa. Sono nato nel 1956. La grandezza di quei personaggi, come Testa o Carbone o Garraffa fu proprio quella di accorgersi di questa generazione senza visibilità, senza possibilità, senza riferimenti: una specie di “ospitalità generazionale”, verso un gruppo di artisti che altrimenti si sarebbero forse perduti in forza di una omologazione non solo del linguaggio ma anche di concepire la vita stessa.

MM: Anche senza dover pensare alla diversità della loro poetica, dal canto tuo non hai mai pensato di “uscire dalla pittura”?

AL: L’ho fatto. Anche in questo studio puoi vedere opere che non sono pittoriche, legni, oggetti, eccetera: ciclicamente ho bisogno di uscire dalla pittura, come per prendere ossigeno, ma altrettanto ciclicamente sento il bisogno di tornare sul medium pittorico, come un richiamo ineludibile, per interrogarmi e interrogarlo sulla sua validità comunicativa nel nostro tempo.

MM: Con queste domande sto cercando di ricostruire un’immagine della Palermo anni Settanta e Ottanta, e dalle tue parole mi sembra che a parer tuo tutto si svolgesse all’interno di quel territorio linguistico. Non c’erano tentativi di seguire altri linguaggi, il concettuale, l’oggetto, la performance, la smaterializzazione…?

AL: Le neoavanguardie allora erano un po’ esaurite anche a livello di fascinazione. Stava nascendo una nuova generazione che, se vuoi, è stata adottata dagli stessi protagonisti di quelle neoavanguardie che ci diedero appunto ospitalità, anche realizzando alcune mostre o aprendoci dei varchi. Nel 1976 per esempio, ci fu una mostra curata da Aurelio Pes: “Leto Garraffa Storniolo Vitale” in cui l’elemento fantastico era dominante, e che veniva recensita dal giornale L’Ora, a firma di Eduardo Rebulla, con questo titolo “Senza compromessi”. Due anni dopo sempre da L’Ora, un’altra ricca mostra di gruppo, alla galleria “I Quattro Venti”, veniva recensita con un lungo articolo di Giuseppe La Monica con il titolo “Ai Quattro Venti l’Arte Fantastica è di sinistra”.  A sottolineare proprio che esisteva un altro impegno politico in cui la fantasia e l’immaginazione non erano certo quelli omologati, diciamo così.  Certo, per lo più, oltre ad un paio di gallerie, erano sempre spazi difficili, non del tutto convenzionali, dalla vineria Savarino alla libreria Flaccovio.

MM: … e del resto tu nel 1976 avevi solo vent’anni…

AL: … sì, però avevo già una produzione forte, continua, ostinata. Partendo da un’ossessione per il Manierismo, di cui avevo capito la sua difformità, mi interessava tutto ciò che era ipernarrazione, sovraeccitamento, horror vacui. Quasi un movimento nuovo da un punto di vista “ormonale”… Certamente è come nella sessualità: il livello di testosterone a quell’età è alto e l’atto artistico si consumava intensamente, in fretta e ripetutamente.

MM: questo per quanto riguarda il tuo percorso personale. Ti sentiresti però di affermare che a Palermo allora esisteva soprattutto una vocazione alla pittura?

AL: In ambito new dada, Toti Garraffa era andato e va ancora ben oltre la pittura, Gaetano Testa è sempre stato anche creatore di strani e fascinosi oggetti…da sensitivo, e anche Francesco Carbone, ma non ricordo altri aspetti eclatanti verso quella direzione extrapittorica. La pittura era il campo dove quasi tutto si giocava. Se pensiamo, invece, alla scultura o alla fotografia, invece, si stagliavano le figure di Giacomo Baragli, di Enzo Sellerio, di Franco Scafidi e Letizia Battaglia . Il teatro poi, era di straordinaria vitalità, con la compagnia Teatés di Michele Perriera, il Testro Libero di Beno Mazzone, la Compagnia del sarto, di Scaldati, e il Teatro Vagante di Ninni Truden…

MM: Dunque, a Palermo si dipingeva fantastico. Tuttavia si ha l’impressione che il dibattito fosse tutto interno alla città: abbiamo citato nomi di intellettuale di grande spessore morale e culturale, ma poco noti fuori dalla Sicilia.  È un problema di separatezza, di autosufficienza, di autoreferenzialità, oppure i problemi erano talmente diversi da essere “altri” rispetto al contesto nazionale e internazionale?

AL: É così. Bisogna aspettare la ricostruzione di Gibellina perché si sviluppi un dibattito nuovo, meno locale, dalle dinamiche nazionali, nonostante anche quelle cittadine usassero linguaggi certamente “alti” … Ma era un po come per certe dinamiche della cultura latino americana: tanto impegno, tanto genio, tanta originalità e tanta marginalità, talvolte subita, altre volte lasciata scivolare via.

MM: Questo è tipico dell’intellettuale siciliano, che elabora sempre in maniera alta…

AL: … comunque, negli anni Ottanta,  per una nuova geografia culturale emergente, furono tre le situazioni: Gibellina, prima con la figura di Ludovico Corrao sindaco, poi la con Fondazione Orestiadi, in cui si creò un  laboratorio dinamico, con la presenza di grandi artisti internazionali e di grandi opere; poi Antonio Presti, alla fine del decennio, con Fiumara d’Arte e quella sua visionaria “chiamata alle arti” come riscatto e riscossa, e infine l’evoluzione dell’attività di Ezio Pagano che da gallerista crea il Museum, a Bagheria: un atto privato di amore per l’arte da condividere in una ideale casa comune degli artisti. Questi, in fondo sono stati i miei “asili politici” rispetto alle minacce del nulla o della sparizione.

MM: Ma riguardo alla tua posizione personale, alla condizione germinale del tuo lavoro, si ha l’impressione che nonostante una produzione culturale siciliana fortissima, ci si trovi sempre in una terra di frontiera, e che chiunque lavori da qui debba fare i conti con questo.

AL: In altri ambiti ci sono stati fenomeni diventati subito di rilevanza europea, l’esemplare Sciascia… però rischiavano di diventare stereotipi della Sicilia, in cui molti di noi artisti non si riconoscevano. Avevamo bisogno di situazioni meno inscatolate, più libertarie, meno legate alla retorica anche di una certa sinistra, addirittura alla mortale retorica di partito -anche se in questo Sciascia si rivelò comunque un irregolare-.  L’evoluzione dell’arte allora ha visto nascere gruppi e gruppuscoli che non ambivano ad altro che a potersi esprimere, a esistere, indipendentemente dalla fine che avrebbe fatto il loro lavoro. L’idea era semplicemente quella di sopravvivere oltre il sistema-Palermo. Credo che anche a Catania sia accaduto qualcosa di analogo.

MM: … sopravvivere?

AL: Sì. Sopravvivere non allineandosi, senza aderire al sistema, al sistema delle gallerie, per esempio, che si chiamavano “Arte al Borgo”, “La Robinia”, “La tavolozza”, dove si cucinavano tutti gli stereotipi dell’alta cucina siciliana: la cosiddetta sicilitudine, un sistemino abbastanza chiuso ma di buona resa, un brend, diremmo oggi, un mondo che a molti di noi andava stretto.

MM: Quando si parla con un artista siciliano che vive in Sicilia, si arriva sempre a questo problema, che evidentemente è cruciale: si poneva chiaramente il problema o restava sottotraccia?

AL: In questo ambito noi eravamo dei nani in confronto all’apparato editoriale, al mercato, all’ “indotto” che la sicilianità portava con sé … Il grande equivoco della sinistra ufficiale, impegnata, referenziata, sostenuta da editoria, gallerie, istituzioni, portava con se il suo bel pesticida.

MM: ma esisteva un risposta in tal senso, per esempio, dalla società civile? Come reagiva a questo problema di identità?

AL: C’erano sporadici momenti di valorizzazione, da parte di un quotidiano come “L’Ora”, la sponda più immediata in cui riconoscersi: facevano inchieste, affondi, indagini, servizi, anche solo con foto, come fossero identikit; poi c’era il “Diario”; c’era un giovane Fulvio Abbate, già attivo e controcorrente attraverso le pagine de L’Ora. C’era il circolo anarchico “Antorcha”,  la “Locanda degli Elfi” in cui Franco Scaldati provava e metteva in scena  i suoi primi spettacoli, c’era il geniale Ninni Truden, Toni Costagliola, l’amico e coetaneo Fabrizio Lupo con il quale ci dedicammo, insieme a Peppe Rizzo,  a  dipingere pareti e quinte del teatro; c’era ancora il circolo “La base”… la prima "radio libera" a Palermo, “Radio Pal”, partecipandovi attivamente con un programma radiofonico fatto con Gigi Burruano e uno interamente mio… tutti luoghi da recuperare almeno come memoria storica in un’ideale racconto di quegli anni, perché erano una vera rete  di controcultura.

MM: Comunque tutti luoghi “off”, underground …

AL: Sì. C’era molta vicinanza anche con Letizia Battaglia che, negli anni Ottanta, da un garage aveva creato con Franco Zecchin, il Laboratorio D’IF, e in spazi attigui c’era il laboratorio calcografico “La Mandragola” di Totò Audino, e la bottega di restauro di Roberto Lo Sciuto: un altro luogo per sottrarsi alla topografia ufficiale di una città che non avrebbe speso nessuna energia per noi. …

MM: …forse in quel momento non era nemmeno funzione di un museo guardare all’estrema attualità: l’idea del museo come promotore del contemporaneo viene dopo.

AL: … Soltanto nel 1988, i critici Eva Di Stefano, Sergio Troisi e Eduardo Rebulla, danno vita a “Made in Palermo”, una raccolta della giovane arte allora emergente, alla Civica galleria d’Arte Moderna, ancora alloggiata in locali del Teatro Politeama, e che  mai aveva fatto entrare l’arte contemporanea tra le sue mura.

MM: In questo clima non hai mai pensato di andar via da Palermo?

AL: Pensato varie volte, ma mai seriamente. Preferivo gli “allontanamenti operosi”, soprattutto verso Roma. Nel 1989, in una galleria off di via dei Coronari con la mia prima personale “Quel che è stato è statico”, curata da Fulvio Abbate, che allora scrisse un testo indimenticabile, e per me costituiva una guida fraterna nell’ambiente romano; poi la frequenza con l’ambiente de La Nuova Pesa e infine l’Art Gallery Banchi Nuovi, una frequenza che si diluisce nel decennio tra 1989 e il 2002.

MM: Tuttavia non abitavi a Roma. Pensavi cioè che la battaglia si potesse condurre da qui. Quanto di questa convinzione viene – se viene … - dal concetto di “genius loci”, che proprio allora veniva teorizzato, diffuso e difeso?AL: L’idea di restare qui ha fatto di me ciò che sono.  Poi, già nei primi anni Ottanta, Acireale ospitava già alcune mostre internazionali di Bonito Oliva, dove il concetto di “genius loci” veniva esaltato. Gli eventi e l’utopia di essere ciò che si è dove si è avevano contribuito a istigare in me questa posizione di stanzialità. E l’incoraggiamento successivamente avuto da Achille Bonito Oliva, con i primi suoi testi scritti per me, rafforzarono questa convinzione. E nel 1987 fu significativo per me che il grande critico internazionale Bonito Oliva, e l’amico sodale giovane scrittore Fulvio Abbate, si recassero nello sperduto eremo della Quisquina per presentare la mia prima mostra di rilievo. Inoltre, sorgeva la nuova Gibellina, con tutto il suo carico di sfida e di fascinazione… Il fatto che il mio lavoro potesse essere interessante per una Fondazione così significava che si poteva lavorare anche nel posto in cui si era. Ma importante nel mio racconto personale è stato anche l’insegnamento. Ho insegnato per due anni all’Accademia di Palermo, poi non mi hanno rinnovato l’incarico, ma ho vinto una cattedra nella scuola secondaria. Ho pensato che questa fosse l’occasione per tornare a vivere e a lavorare nel posto in cui ero nato, e da lì provare a costruire la mia identità.

Ero titubante all’inizio, ma poi ho scoperto quanto importante fosse il rapporto tra me artista e la scuola pubblica, dover mettere a disposizione l’esperienza e i valori liberatori dell’immaginazione e della fantasia, far acquisire una sensibilità verso l’arte, proprio mentre stavano crescendo i miei due figli.   In questo so di essere una grande risorsa: è la situazione adatta per sperimentare una dimensione creativa ventiquattr’ore al giorno, sia come insegnante che come artista, ruoli che spesso si sovrappongono e si risolvono in esperimenti di straordinario valore pedagogico e di libertà. Perché l’artista, come l’insegnante, serve a insegnare il valore della libertà.

MM: questo, negli anni Ottanta o anche oggi?

AL: Anche oggi, e più che mai, nonostante il cambiamento radicale delle generazioni.

MM: In questo vedo la tua figura comporsi sotto la definizione di “intellettuale”: non a caso il primato e la priorità dell’intellettuale è la lotta per la comunicazione dei valori in cui crede…

AL: … vogliamo dire “valori civili”? Vivo in una piccola comunità, ma non sono solo, ci sono anche altri artisti che vivono a Santo Stefano, e con i quali c’è il sodalizio e l’affetto di una vita, soprattutto con Franco Sarullo e Lorenzo Reina;  poi ci sono state e ancora ci sono tante lotte, molto accese, per una dimensione civile del vivere, come ad esempio quelle per l’acqua. Noi viviamo in un posto di sorgenti importanti, che viene sempre considerato, spesso in modo irresponsabile e scorretto, una sorta di luogo da espugnare. Sono sempre stato partecipe delle dinamiche civili, ma sul campo, non con la pittura. È per questo che provo un certo disagio verso quegli artisti che pensano che attraverso l’opera d’arte si possa portare un serio contributo civile e sociale. Non è vero. Ritengo che l’arte contemporanea sia un linguaggio privilegiato, che l’artista non debba chiedere solidarietà sociale, perché quello che fa lo fa perché lo ha voluto e nessuno glielo ha chiesto; e ciò che deve fare è trovare una dimensione linguistica che elevi il suo gesto e riesca a creare un codice comunicativo magari anche segreto, ma di qualità… gli anni eroici di Otto Dix o di Grosz sono finiti. In fin dei conti nella cultura della  Russia del 1915 fu un quadrato nero su fondo bianco ad essere eversivo, il realismo sociale era invece gradito al sistema. Naturalmente si può discutere e fare arte con tutto, ma non si può pensare che una mostra in una galleria glamour possa valere più di cinque minuti di una qualsiasi inchiesta giornalistica o di un film impegnato e visto da milioni di persone. È la spocchia autoreferenziale dell’artista quando incontra la credulità del pubblico e il favore del mercato che può far pensare il contrario. Io adoro lo scetticismo del pubblico medio e “analfabeta” nei confronti dell’arte contemporanea.

MM: Però tu stesso, in cicli di lavori quali “Al paradiso dei pezzi di ricambio” o nella serie “Sacrifashion” dove dipingi sopra le immagini pubblicitarie, non disdegni di occuparti quasi moralisticamente della cronaca.

AL: Che il linguaggio possa essere motivato eticamente o criticamente può accadere, però questo non deve essere mai l’alibi dell’artista che si ritrova la coscienza a posto perché di giorno si è occupato della retorica globalizzata e di notte sogna il mercato e il successo. L’artista sogni il successo, sogni di essere amato, questo sì, è più naturale, non venda ferite: non è credibile.

MM: Comunque, l’artista può affrontare qualunque argomento, “da artista”, dicendo ciò che vuole senza per così dire l’onere della prova almeno quando si pone all’interno del linguaggio artistico.

AL: Certo. E a questo proposito io sento su di me l’impronta di una tradizione surrealista, che come sai era anche impegnata politicamente, ma nel senso che la conquista dell’immaginazione, la possibilità e il diritto di esercitarla e di comunicarla è forse il solo scopo dell’artista. Questa è la sua gioia, e non che l’opera riesca a cambiare la coscienza degli altri su fatti drammatici o epocali che riguardano la vita degli uomini. Fare pittura è una sindrome, è una coazione a ripetere e a variare finché la vita non passa: io spero di terminare la mia vita dipingendo, ovviamente, come diceva de Quincey, fino a quando “non ne avrò più bisogno”.

MM: Parli di ripetere, ma anche di variare, e dunque di varianti: il tuo lavoro mi sembra pieno di varianti.

AL: Molto. Non amo molto ripetermi. Ogni opera è un “luogo a procedere” verso un’altra opera fin quando quella strada non si esaurisce e se ne cerca una nuova, come in una ramificazione. Invidio certi artisti per la coerenza che consente loro di riprodurre sempre la stessa opera con microspostamenti, e mi chiedo se sia un problema di “domanda e offerta”, o invece un fatto spirituale, di marca quasi orientale, per cui l’artista vive in una condizione “mono”, di sole variazioni su un tema. … Se potessi mi moltiplicherei ancora di più … Una volta a Mark Kostabi, con il quale a Roma stavamo per fare una mostra insieme e col quale ho fatto un paio di opere in collaborazione, ho detto che la differenza tra noi due è che lui si moltiplica e io mi divido. Spero solo di avere il carburante sufficiente per sorprendermi di quel che faccio: quando l’artista non si sorprende più non è neppure in grado di sorprendere gli altri, per cui spero tanto di mantenere questa vitalità.

MM: Ti definiresti dunque un artista eclettico?

AL: Sembra di sì. Per alcuni è una parola d’offesa, per me no. Testimonia un atteggiamento laico dell’arte. A parte che, modestamente, bisogna essere attrezzati bene e con le dispense mentali piene da dissipare a piacimento, altrimenti sei solo un volgare imitatore.

MM: Rimane però la vocazione iniziale surreale …

AL: Quello è un vero imprinting, che rischia di essere una definizione controproducente, quasi come definirsi surrealista fosse un autogol. Però, quanti artisti fanno opere surrealiste senza dichiararlo, magari “per educazione” o per furberia, o semplicemente perché non è necessario? Penso a Damien Hirst, a Maurizio Cattelan, a tanti altri…

MM: Magari loro usano il paradosso, che fa parte dell’armamentario surrealista, ma non è appannaggio solo di quel movimento…

AL: Comunque, credo che tra le avanguardie storiche il surrealismo sia il movimento che più si è guadagnato il diritto di sopravvivenza all’interno del nostro secolo, trasformandosi in altri linguaggi: se penso ad altri movimenti li vedo ormai consegnati allo schedario della storia.

MM: Forse accade questo perché non è un movimento “visivo”, ma magari un’attitudine …

AL: C’è effettivamente una radice concettuale. Credo che anche nella mia pittura ci sia una radice concettuale profonda, nonostante sia rivestita di una protesi pittorica. Sinora l’artista è apparso più rispettabile se è coerente con un suo stile riconoscibile, mentre la mia sfida è quella di rivendicare la possibilità di fare esattamente quello che voglio! Solo il mercato ti dirà se quello che fai incontra il gusto comune, poi se l’artista risponde a questa esclusiva sollecitazione lo seguirà, se no seguirà la propria inclinazione, il proprio desiderio. In fondo dipingere è comunque un gesto di pura aristocrazia culturale.

MM: Mi confermi nel fatto che vedo in te prima l’intellettuale, poi l’artista che realizza quel che pensa da intellettuale. Per questo ti ho fatto tutte le domande sul contesto sociale, sulla Palermo anni Settanta: in fondo, a un artista dovresti chiedere semplicemente come si sente e cosa fa, mentre a te vien voglia di chiedere come stai nel territorio che abiti…

AL: Deriva anche dal fatto che sono allenato a dialogare col mio lavoro. Non “licenzio” mai un quadro se non ho chiuso i conti, se non posso dire che il suo essere al mondo abbia senso, quanto meno per il linguaggio che lo costituisce …

MM: … questo dovrebbe valere per tutti gli artisti …

AL: Lo spero. Spero che tutti instaurino un dialogo con le proprie cose, come faccio io, ma non so se è una pratica così diffusa…me lo auguro, ma vedo anche tra gli artisti molti atteggiamenti che contraddicono un rapporto profondo con i propri prodotti…

MM: …a volte però ci vuole anche una sorta di “disinvoltura” nel liberarsi dei propri lavori, delle proprie opere …

AL: …ma se non sono disinvolto io!... L’importante è che un’opera abbia senso nello stare al mondo indipendentemente dal resto del lavoro: anche se rimanesse sola, dovrebbe aver senso. Poi c’è naturalmente tutto il discorso sul contesto, ma dal punto di vista esistenziale dell’opera mi interessa la sua finitezza, il suo essere un discorso chiuso e completo, esitabile, da affidare al suo destino.

MM: Una monade?

AL: Forse. L’opera deve avere una vitalità indipendente, non ci deve essere nulla da sapere, nulla da spiegare: una volta volevo fare una mostra dal titolo “Quadri soli” o “Opere sole”, poi scoprì che il mio amico Mariano Rossano, a Roma, l’aveva appena fatta.  Come vedi è un pensiero che ha un suo perché.

MM: Non conoscere il contesto, allora?

AL: Solo lo scrutatore impegnato e attento può trovare anche le connessioni storico-critiche. Ma l’opera deve poter vivere anche oltre l’analisi dell’esperto. A tutti deve poter dire qualcosa fuori dai codici.

MM: Tuttavia, il contesto è una parte ormai essenziale dell’arte contemporanea. Il solito trito esempio dell’orinatoio di Duchamp è sempre utile: se restasse da solo, senza memorie, senza contesto, potrebbe restare da solo, ma con tutta la galleria attorno!

AL: Questo accadeva prima della Postmodernità. Il Postmoderno ha rimesso in discussione tutto, con lo sguardo globale che ha generato, e che ha riportato in auge una visione, appunto, eclettica.  Le cose cambiano: l’artista è perseguitato dal passato e, al tempo stesso, il futuro lo reclama, e queste due dimensioni si appiattiscono o si proiettano nella dimensione del presente. Il passato davvero mi perseguita… Non puoi pensare il futuro senza pagare il pedaggio al passato, inteso come Storia.

MM: Pensi sia vero per tutte le generazioni di artisti? Anche le più giovani? Non credi che l’oblio, la non memoria sia invece una delle caratteristiche della contemporaneità?

AL: Io parlo dell’artista. Personalmente non riuscirei a vivere nell’oblio. Come dicevo, sento il passato col fiato sul collo, e penso che passato e futuro siano le due forze che consentono di creare l’opera. Passato e futuro: in mezzo è l’opera, il presente! Se riesci a coniugare in un oggetto l’aspetto ricettore e quello trasmettitore allora hai concepito un’opera del tuo tempo. Poi entrano in campo altri elementi, come l’ironia…

MM: … ritorna lo spirito surrealista… ma per coniugarlo con la Postmodernità che tu citi, vorrei sapere da te qual è la tua concezione di Postmoderno, quali categorie comprende …

AL: Riconosco la Postmodernità almeno fino all’inizio del nuovo millennio, poi è sorta una dimensione ancor più libera …

MM: Eppure è proprio il Postmoderno che ha “sdoganato” la massima libertà espressiva, con la famosa frase per cui “tutto può funzionare”…

AL: Per quanto mi riguarda, non si tratta di un’adesione, ma piuttosto di una congiuntura, la possibilità di combinare elementi diversi. Certo non si tratta di uno stile, e non mi interessano gli stereotipi postmoderni… Non ritengo neppure d’essere un virtuoso della pittura – un vizioso, semmai –  e ciò mi salva da molti pericoli, pur essendo io tecnicamente bravo. Quando arrivo vicino alla leziosità del virtuosismo, mi tiro indietro, perché l’opera per me è un campo di forze o, se volessimo usare una definizione presa a prestito da altri linguaggi, una “situation comedy”, in cui è il quadro ad accendere situazioni, a creare scintille. Mi capita di vedere cose che mi animano e che mi mettono persino di buonumore, mi aiutano nel fare le mie opere, e non ho paura di dire che le vedo anche in altri artisti contemporanei: un’opera come “Stadium” di Cattelan, per esempio, oppure “Miss Kitty” di Paolo Schmidlin, raffigurante papa Ratzinger in autoreggenti, opere che riescono a coniugare sociale e humour. Il Postmoderno ha sdoganato anche l’umorismo nell’arte, per cui certe opere possono far sorridere e anche ridere senza perdere in dignità.

MM: Spesso però oggi si tratta di una categoria-principe…

AL: … principe non lo deve essere per programma, ma può succedere. Io per esempio ho fatto una mostra “Leto ridens. Opere a piacere”, in cui avevo selezionato opere in cui era centrale il motto di spirito, il paradosso, come nel mio necrologio, o nel lavoro in cui un semplice vetro rotto, evidente riferimento al Grande Vetro duchampiano veniva contraddetto dalla scritta “Concettuale ‘sta minchia”, che riportava il vetro rotto semplicemente ad essere un vetro rotto. In questo senso dubito sempre delle opere drammatiche, che parlano dei massimi sistemi, perché oggi è molto difficile farle. Il dramma, il soggetto pretenzioso davanti al quale rifletti su qualcosa di importante sul mondo, sulla condizione umana, non fanno per me: per fare certe cose bisogna essere “credenti”, e io sono ateo, anche artisticamente ateo. Un agnostico dell’arte. Il mio “non credere” è la sola vera fonte di speranza, è la benzina che mi fa andare avanti…

MM: Abbiamo iniziato parlando del contesto anni Settanta, chiudiamo parlando del contesto attuale: Cosa trovi di cambiato da allora?

AL: Molte cose. Non voglio sembrare severo, ma quando ero giovane gli artisti si scoprivano ma non si inventavano, oggi accade che molti artisti si inventano. É una dimensione nuova del fare arte.

MM: Non accade solo a Palermo…

AL: … stavo aggiungendo, infatti, che è una dimensione globale che tocca anche Palermo, dove per altro ci sono artisti di straordinaria bravura e intelligenza. Ciononostante esiste anche una situazione quasi artificiale dove gli artisti giovani sono molto assistiti … noi eravamo privi di riferimenti, bradi, e ci piaceva esserlo: eravamo “poveri e superbi”. Oggi il “giovane artista” è diventato una categoria molto tenuta d’occhio, molto assistita, anche familiarmente.  La dimensione del “talent show” dopo aver invaso le case discografiche, sta invadendo le cucine dei ristoranti e le gallerie d’arte.  Mio padre sapeva a malapena ciò che facevo e talvolta mi guardava con un certo scettico sospetto. Quel suo sguardo laico mi ha fatto crescere.

 

Santo Stefano Quisquina, 5 febbraio 2018

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