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LO SCANNER DELL’INTELLETTUALE MILITANTE

Marco Meneguzzo

 

Alfonso Leto è uno scanner vivente. Un analista del reale, di tutto ciò che capita entro il suo raggio d’interesse (si badi, non nel suo raggio d’azione, e neppure nel suo raggio visivo), e che viene elaborato secondo codici autogeneranti e autogeneratisi. I codici, ancor più dei linguaggi, cambiano abbastanza rapidamente nel corso degli anni, ma lo scopo è sempre lo stesso: la codifica del reale secondo parametri intelligibili. Di fatto, questo è il compito dell’intellettuale, e difatti Leto è prima di tutto un intellettuale, poi un artista, perché dall’arte ha mutuato i suoi codici di riferimento e comunicativi.

Questo atteggiamento originario – l’atteggiamento dell’intellettuale, cioè – consente di leggere in maniera unitaria e coerente il percorso dell’artista, che invece è costellato di cambiamenti e di revisioni linguistiche anche molto differenziate tra loro. Ma l’arte è invece il sublime strumento dell’intelletto, che nel caso di Leto viene prima di ogni pulsione fabrile, di ogni attitudine istintiva, di ogni coazione a stendere colori su una tela: nonostante l’apprendistato tipico dell’artista – accademia, bottega, mostre, esposizioni…. -, Leto è artista per scelta e non per chiamata, appartiene cioè a quella schiera di artisti che usa la pittura, ma avrebbe potuto scegliere il video, la parola, la performance, o qualsiasi altro medium. La pittura è “comoda”, perché non abbisogna di giustificazioni concettuali, perché non necessita di affermare se stessa come medium, perché va diritta al bersaglio con un linguaggio sufficientemente sofisticato per essere articolato e adatto a un’epoca complessa come la nostra, e sufficientemente noto e conosciuto per essere comprensibile da tutti. É, cioè, un linguaggio “popolare”, e si sa quanto questo tema abbia occupato la mente degli intellettuali italiani, da Gramsci in poi (e forse persino da Pietro Verri e Alessandro Manzoni …): che cos’è “popolare”? Quale linguaggio può unificare l’interpretazione delle cose, in una maniera accettabile, mediana, uniforme? In questo senso Leto è un vero e proprio intellettuale “militante”, ma è anche aggiornato al tipo di militanza postmoderna visto che, dopo tutto, la sua attività matura coincide esattamente con l’affermazione del Postmoderno. Con grande lucidità, infatti, pone dei limiti all’azione dell’artista e dell’arte, obbedendo in questo al realismo della postmodernità, di contro all’utopia del Moderno: quel che l’arte può fare è smuovere le singole coscienze, ma non eccitare le masse, non educare universalmente al bello e al buono. Così, anche i soggetti dell’arte non devono per forza incarnare l’umanità, ma è sufficiente – e probabilmente più efficace – che incarnino le osservazioni del singolo. E’ dunque un diario quello che ci propone Leto? No di certo, perché egli non abdica alla sua funzione di intellettuale, cioè di interprete della realtà: ciò che lo colpisce non appartiene solo alla sua sensibilità, al suo vissuto, ma alla vita di tutti, senza per questo attingere ai massimi sistemi. C’è, nella scelta dei suoi soggetti, una sorta di “shifting”, uno “scivolamento” verso temi più contingenti, ma non per questo meno generali, che avvicina il suo immaginario alla quotidianità. Paiono termini contrapposti, questi, “immaginario” e “quotidianità”, ma non è così, perché Leto riesce ad essere inventivo, brillante e sorprendente sfiorando addirittura la banalità della cronaca: lo fa attraverso l’ironia, anche quella molto vicina al calembour, al motto di spirito, al graffito volgare, all’invettiva anonima del gesso sul muro, persino alla parodia oscena del luogo comune, di tutti i luoghi comuni che popolano il nostro orizzonte.Al contrario di molti altri artisti, e pur procedendo per cicli diversificati (ma spesso anche contemporanei l’uno all’altro), Leto adatta il linguaggio al soggetto, accorda lo strumento al tono che intende usare. Per questo, parlando del suo lavoro, non si può non parlare prima del “cosa”, e poi del “come”, prima del soggetto, poi della forma data al soggetto.

Non si tratta certo di una mancanza – la Modernità ci aveva educato a considerare essenzialmente la “forma del nuovo” piuttosto che il suo contenuto … -, ma della riprova dell’assunto iniziale – l’essere un intellettuale prima che un artista – e contemporaneamente della capacità di piegare il linguaggio al proprio pensiero, con una disinvoltura che denota, quella sì, la disinvoltura con cui i grandi artisti trattano i loro strumenti. Così, anche se alla base di tutto c’è il pensiero surreale, e anche un po’ di pittura surrealista rivisitata da un contestatore palermitano di fine anni Settanta, il suo immaginario attraversa questi quarant’anni identificando temi e problemi che hanno costruito le nostre relazioni e i nostri pensieri così come li stiamo affrontando ora. Una gioia di vivere un po’ sfacciata e rumorosa, l’irruzione di codici identificativi di ogni cosa nella nascente epoca informatica, il video gioco così simile ai manga, la pubblicità seducente ma tutta uguale, un’umanità talmente glamour da essere generata in 3D, incontra memorie ataviche, ricordi arcaici, ombre infantili, rovine cerebrali perdute nei meandri del cervello. Come ogni buon siciliano anche Leto rivendica le sue Rosalie, i santi, le stimmate da cui non riesce a liberarsi neppure trasformando questi simboli di virtù nel loro contrario, le disgrazie della virtù, ma così facendo ne rinnova l’immaginario, lo pone vicino ai supereroi dagli occhioni grandi, così simili ai cartoon giapponesi, e ne dimostra la vitalità, la possibile sopravvivenza anche ai tempi della rete: un perfetto esempio di “glocal”, di “globale” e “locale”, capace di sfruttare con intelligenza, cinismo – e un pizzico d’amore – anche il folklore più trito.

La forma assunta da questo melting pot sicano-globale è la più varia, e anche qui Leto mostra di aver percepito, “annusato” la contemporaneità che non premia più la coerenza formale, ma quella concettuale, e nonostante questa varietà venga da un’idea di “genius loci” così di moda negli anni Ottanta, questo non fa che dimostrare la validità di quell’assunto, che costituisce forse l’unica forma di resistenza contemporanea all’avanzare dell’uniformità globalizzata. Leto mette in scena quello e questa, in diverse dosi, in differenti maniere, e comunque sotto il gigantesco ombrello ideale della pittura, che si sta riprendendo i suoi spazi di adattabilità e di duttilità che sembrava aver definitivamente perduto. Al contrario, con una furia che appare molto maggiore di quella effettivamente messa in atto (in fondo, nel corso della sua attività, Leto ha dipinto poco più di cinquecento quadri, dimostrando così di meditare su ogni tela molto più di quanto sembri … ), l’artista inscena il suo teatro a furia di sovrapposizioni visive. Erano particolari misteriosi e particolareggiati all’inizio, quando il surrealismo si faceva sentire di più, almeno dal suo lato formale, poi sono diventati segni veloci, quasi fumettistici a metà degli anni Ottanta, si sono raffreddati in astrazioni “con molti ricordi”, sono diventati persino oggetti “poveri” – marsupi, legni, ready made di un’araldica povera ma sgargiante - , è riaffiorata la figurazione al tratto e poi la pittura grondante facili effetti cromatici, e la pittura sopra la fotografia pubblicitaria, per esaltare il gioco di andata e ritorno delle immagini “alte” e “basse”, infine sono addirittura comparsi i fiori! … sì, i fiori, la quintessenza del quadretto di genere, se non fossero dipinti su superfici plastiche enormi. In fondo, sono tutte sovrapposizioni visive. In alcuni casi sono evidenti, sulla stessa tela: due, tre, quattro immagini diverse, di qualità differente, di tecnica differente, come quando sullo schermo del computer si aprono a raffica – e senza che noi lo vogliamo – una serie di finestre visive che sembrano “sgomitare” tra di loro per guadagnare la superficie e lo sguardo per un istante; in altri casi bisogna invece pensare alla serie, al ciclo di opere per ricostruire la “famiglia” visiva, e collocare quell’immagine all’interno di una più vasta serie di immagini che a loro volta appartengono a un insieme potenzialmente infinito di possibili varianti. “E’ l’immaginario d’oggi, baby! …”

Tutto questo è Alfonso Leto, che vive a Santo Stefano Quisquina, in provincia di Hong Kong.

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